Oltre la vita e la morte. Il concetto di morte in psicanalisi.

 

“In fondo, nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità”

“Insistiamo sempre sul carattere occasionale della morte: incidente, malattia, infezione, vecchiaia avanzata, dimostrando così chiaramente la nostra tendenza a spogliare la morte di ogni carattere di necessità, a farne un avvenimento puramente incidentale”

“Non faremmo bene ad assegnare alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, il posto che le si addice ed a prestare un’attenzione sempre maggiore al nostro atteggiamento inconscio nei confronti della morte, che invece siamo sempre occupati a reprimere con tanta accuratezza?”

“Ricordiamo il vecchio adagio: si vis pacem, para bellum: se vuoi il mantenimento della pace, sii sempre disposto alla guerra. Sarebbe ora di modificare questo adagio e di dire: si vis vitam, para mortem: se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte.”



Freud, Il nostro atteggiamento nei confronti della morte

La psicoanalisi, dai suoi albori, non ha evitato il confronto col morire e la morte. Freud, già ai tempi dell’ ”Interpretazione dei Sogni” (1900), che teorizzò come l’appagamento di desideri inconsci rimossi, si trovò a riflettere intorno al paradosso dei sogni traumatici e dei sogni di morte. Infatti, secondo Freud:

“Il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale. Ciò che noi chiamiamo il nostro inconscio, cioè gli strati più profondi della nostra coscienza, quelli composti da istinti, in genere non conosce niente di negativo, ignora la negazione (i contrari vi coincidono e vi si fondono) e, di conseguenza, la morte, alla quale possiamo attribuire solo un contenuto negativo”

Considerò piuttosto anche la morte metafora di qualcos’altro e, di conseguenza, l’angoscia di morte non tanto connessa alla paura di morire, quanto al senso di colpa derivato da un desiderio rimosso:

“l’angoscia della morte, la cui azione subiamo più spesso di quanto non crediamo, è qualcosa di secondario e nella maggior parte dei casi deriva dal senso di colpa.” (Freud, 1915)

Come sappiamo, infatti, uno dei concetti cardine della psicoanalisi è il mito di Edipo, che ruota intorno al tema del parricidio, considerato per altro da Freud l’omicidio primordiale, motore della storia:

“Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale è una serie di uccisioni tra i popoli. L’oscuro senso di colpa che domina l’umanità fin dall’inizio, e che in talune religioni si è condensato nell’idea di una colpa primordiale, di un peccato originale, è molto probabilmente l’espressione di un delitto di sangue di cui gli uomini delle origini si sono fatti carico”. (Freud, 1912)

Secondo Freud, l’enigma intellettuale costituito dalla morte ha costretto l’uomo a riflettere, ed il conflitto emotivo generato dalla morte di una persona amata ha costretto il genere umano a darsi delle regole ferree riguardo all’omicidio, creando il precetto etico “Non ammazzare”.

Freud sembra dunque sovvertire il rapporto vita-morte, arrivando a dire che, essendo la morte l’unica certezza e la vita solamente una parentesi che interrompe questo stato di quiete, è proprio la vita il vero mistero!

Si trovò infatti a dover constatare una inconscia costrizione alla ripetizione di eventi spiacevoli – osservabile nella relazione analitica, nei sogni traumatici e nel gioco dei bambini – che lo portò ad ipotizzare una basilare “coazione a ripetere”. Aveva più volte sfiorato queste questioni, indagando i fenomeni di tranfert (1905), le nevrosi, e in particolare la nevrosi ossessiva (1907, 1909, 1913), il lutto e la melanconia (1917) e attraverso le “Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte” (1915). Questi studi avevano già mostrato i limiti di una teoria basata semplicemente sul “principio del piacere”, ma è solo nel 1920 che compie la svolta teorica, con Al di la del principio del piacere, in cui postula, al fianco delle pulsione di vita, una pulsione di morte, che descrive come originaria, fondante, tendente alla quiete dello stato:

La tendenza predominante della vita psichica, e forse della vita del sistema nervoso in genere, consiste nello sforzo di ridurre, di mantenere costante o di sopprimere la tensione interna prodotta dagli stimoli (“principio del Nirvana”), tendenza che trova espressione nel principio del piacere; il riconoscere questo fenomeno è per noi una delle più valide ragioni per credere nell’esistenza delle pulsioni di morte. (Freud, 1920)

E’ una svolta radicale: la pulsione di morte non è una pulsione a morire, ma un prezioso elemento teorico che permette a Freud di superare alcune impasse della clinica e di non domandarsi più “Perché?” l’uomo cerchi di tornare a questo stato di quiete assoluta, ma “Come?”. Certo le prime traduzioni hanno contribuito a creare confusione, dal momento che dal tedesco all’inglese la pulsione (trieb) di morte era diventata istinto (instinkt) di morte, ma chiaramente il concetto freudiano non indica alcuna “naturale” inclinazione a morire. Freud mostra invece la condizione mortifera della vita e come la pulsione di morte si declini nelle varie nevrosi, come dire che non c’è alcuna angoscia di morte, ma solo angoscia di vita!

Le nevrosi sono piuttosto il tentativo di padroneggiare il desiderio (non potendolo soddisfare), di metterlo a tacere, di soffocarlo. Le diverse strutture di discorso mostrano come possa essere mortificato il proprio desiderio: il discorso melanconico vive di enunciati, frasi fatte, non c’è spazio per agire perché tutto sembra già scritto, è sempre troppo tardi. Nella melanconia il Super-Io sembra “una sorta di luogo di coltura della pulsione di morte” (Freud, 1922). Al contrario il discorso ossessivo è in estenuante attesa della condizione migliore, in continua preparazione, tanto da perdersi nel rito. In ogni caso il soggetto finisce per precludersi abilmente ogni possibile situazione in cui scoprirsi desiderante, perché questo gli provocherebbe anche un’insopportabile carico d’angoscia. Ma come sottolinea ancora Freud, il silenzioso lavoro della pulsione di morte si dirige in parte contro l’Io, ma in gran parte viene deviato all’esterno sotto forma di aggressività; vale a dire che il soggetto può trovarsi davanti al bivio tra masochismo e sadismo, e il più delle volte preferisce proprio quest’ultima strada. Sono ovviamente questioni che non ritroviamo solamente nella clinica, ma anche a livello sociale, essendo alla base della maggior parte dei conflitti.

La pulsione di morte punta proprio all’azzeramento degli stimoli, evocando l’idea di un sonno eterno, di pace totale, di cessazione del conflitto psichico, di rimozione o soddisfacimento del desiderio. Benché sia stata teorizzata da Freud solo nel 1920, assume per certi versi una posizione fondante: in effetti, ogni volta che si prova a spiegare cosa cada sotto il principio di piacere e cosa sotto la pulsione di morte, le questioni si confondono. Freud stesso nell’ultima pagina di Al di là del principio del piacere scrive:

“E in effetti ora ci sembra che il principio del piacere sia al servizio delle pulsioni di morte. E’ pur vero che esso controlla gli stimoli provenienti dall’esterno, che rappresentano un pericolo per tutte e due le pulsioni; ma è contro l’aumento degli stimoli interni che esso sta particolarmente in guardia ché tali stimoli renderebbero più arduo il compito dell’esistenza. Tutto ciò, a sua volta, solleva un nugolo di altri problemi che, oggi come oggi, sono destinati a restare senza risposta.” (Freud, 1920)

La pulsione di morte sembra sottolineare il paradosso della condizione umana, che non è più lineare, in evoluzione:

Noi abbiamo il sospetto che nell’Io operino pulsioni diverse da quelle di autoconservazione e dovremmo essere in grado di dimostrarne l’esistenza. (Freud, 1920)

Possiamo dire che con Freud abbiamo per la prima volta una chiave di lettura per i comportamenti cosiddetti anticonservativi, lontano da ogni riduzionismo psicologico. In effetti non si capisce come questo concetto sia potuto essere così controverso nella storia della psicoanalisi, tanto da essere considerato da molti seguaci di Freud per lo più inutile, metafisico, imbarazzante. Ma la pulsione di morte è innanzitutto un’ulteriore conferma che il soggetto non è pieno, ma sempre mancante, e che c’è qualcosa che lo eccede e che lo determina: l’inconscio. La pulsione di morte è la spiegazione teorica del sintomo e dell’appagamento inconscio che ne garantisce la ripetizione. Designa la dimensione irrazionale e insensata che caratterizza il desiderio umano, il comune denominatore di un’attività pulsionale che contrasta il funzionamento vitale di un organismo che non aspirerebbe ad altro che al proprio benessere e a quanto gli basta per sopravvivere.

La psicanalisi mostra la condizione mortifera della vita, dunque cogliere queste questioni è nella direzione della vita. La morte non è conoscibile altrimenti, per definizione; siamo informati della morte altrui, ma non possiamo trarne alcun insegnamento. Oggi si cerca invece continuamente di amministrare la morte: i kamikaze abbracciano la morte, nei tribunali si condanna a morte, negli ospedali si pratica la “morte assistita”. Ma la morte, di per sé, non ha senso; e non ci si trova preparati alla morte pensando la morte, ma ci si trova quasi preparati, quando si crede alla vita, quando cioè non si rimane ancorati ad un passato mitico o in attesa della condizione ideale, ma quando si vive il presente, sempre, e ci si confronta con ciò che questo offre.

La morte è un appuntamento inderogabile, per ciascuno. Cercare di amministrare la morte non è nella direzione della qualità della vita, è nel fantasma di padronanza. Assassinare, suicidarsi, sono tentativi di dominare la morte, l’illusione di poterle dare un’immagine, uno scopo, di attribuirle una funzione. Non si muore né pro né contro. L’esperienza psicanalitica mostra che c’è sempre altro, che non c’è mai una verità ultima e accessibile per spiegare l’agire umano. La teoria della pulsione di morte è solo apparentemente semplice (e forse per questo è stata tanto criticata), mentre invece è un elegante tentativo di teorizzare l’evidenza clinica della assoluta irrazionalità dell’uomo, in quanto abitato dall’inconscio. Lungo il filo della teoria si è dunque portati a considerazioni assolutamente sorprendenti, perchè, non solo ciascun individuo è soggetto a pulsioni che non vanno nella direzione della vita, ma addirittura queste pulsioni producono del godimento! Sono questioni non banali, anzi…di vitale importanza.

Resources

What are the foundations of psychoanalysis? Who is a psychoanalyst?

Guiding principles for any psychoanalytic act

Is psychoanalysis right for me?

Who can benefit from psychoanalysis?

 

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