È possibile l’ascolto analitico in istituzione? La questione della sessualità nelle comunità psichiatriche.

 

 

ABSTRACT

Nelle comunità psichiatriche irrompe di frequente la questione sessuale. Cosa può dire di diverso la psicanalisi, rispetto al discorso psichiatrico e alle pratiche psico-socio-educative? È possibile prestare un ascolto analitico in istituzione? Il tema della sessualità in istituzione viene perlopiù abbordato sul piano della morale, cioè in termini di bene o male, di giusto o sbagliato, piuttosto che sul piano della clinica. Freud ha fatto continuamente riferimento alla sessualità, precisando che questa non era riducibile al sessuale. C’è sessualità nelle psicosi? E come intendere la questione dell’omosessualità nelle psicosi? A partire da alcuni esempi clinici l’autore intende ripercorrere alcune tappe fondamentali dell’elaborazione in Freud e Lacan circa la sessualità (con particolare riferimento alla questione della psicosi), per mostrare come la clinica psicoanalitica possa avere conseguenze pragmatiche anche in istituzione.

 

I

 

Antonino

Le questioni sessuali animano spesso le discussioni tra gli operatori che a diverso titolo operano nelle comunità psichiatriche, nelle case di cura, o nei reparti di psichiatria. Mentre ancora frequentavo l’università lavorai in una piccola comunità psichiatrica della provincia, dove risiedevano otto utenti adulti. Tra questi vi era Antonino, un uomo di circa quarantacinque anni, che aveva una diagnosi di schizofrenia paranoide, e che aveva trascorso in istituzione gran parte della sua vita. L’equipe era composta da dodici educatori, che si alternavano sulle ventiquattro ore. Gli utenti, alcuni dei quali provenienti da ex ospedali psichiatrici, potevano rimanere anche diversi anni in struttura. Antonino era una persona estremamente intelligente, acuta, sensibile, ed era in grado di produrre un delirio estremamente florido, che in genere ruotava intorno ai temi della procreazione, della genesi, del concepimento. Secondo Antonino il suo sperma aveva già fecondato milioni di donne, generando milioni di bambini nel mondo. Antonino era assolutamente sensibile al fascino femminile ed era anche dotato di una certa classe nell’approcciare l’altro sesso, e infatti anche in comunità si rivolgeva quasi sempre alle educatrici. A volte poi non si tratteneva, e magari esagerava nel cercare il contatto fisico con le stesse, o avanzava “proposte indecenti”, anche se a detta delle stesse mai in maniera volgare. Altre volte poteva farsi trovare nudo sul suo letto in attesa che qualche educatrice entrasse nella sua stanza e potesse così vederlo. La questione sessuale era, possiamo dire, in qualche modo centrale per Antonino, che infatti aveva poi trovato il coraggio di chiedere a un educatore (questa volta maschio) di accompagnarlo da qualche prostituta, così da poter soddisfare le sue esigenze. L’equipe si era confrontata e, come spesso avviene in questi casi, si era divisa tra quanti simpatizzavano e cercavano in qualche modo di giustificare la richiesta di Antonino come un suo diritto, e coloro i quali semplicemente non ne volevano sapere, non la volevano prendere in considerazione. Si giunse poi a una soluzione salomonica, per cui Antonino avrebbe ottenuto quanto richiesto qualora si fosse trovato un volontario per accompagnarlo, tra quanti ne avevano appoggiato la domanda. Gli altri operatori, pur non d’accordo, non si sarebbero opposti. Alla fine si trovò anche il volontario. Questo educatore mi raccontò poi che un giorno prese il furgone della comunità e accompagnò Antonino lungo le strade di provincia ai cui margini le prostitute aspettano i clienti. Effettuata la contrattazione, l’educatore rimase nel furgone ad aspettare Antonino che si era appartato dietro qualche albero con la prostituta. Una scena per certi versi paradossale, tra il tragico e il comico, e che può suscitare sentimenti opposti, contrastanti. Eppure non è qualcosa di così infrequente, se pensiamo che una scena per certi versi simile, addirittura all’interno dell’istituzione, la si trova già nel famoso film con Jack Nicholson “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, del 1975. Antonino ottenne d’essere accompagnato nello stesso posto ancora una o due volte; poi fu finalmente chiaro a tutta l’equipe che non era per quella via che Antonino avrebbe potuto fare dei passi in avanti circa le proprie questioni. Non solo, ma a quanto mi riferì l’educatore, lo stesso Antonino attenuò decisamente il tono delle richieste, finché come per tacito accordo nessuno ne parlò più e la cosa non ebbe seguito. Non bisogna dimenticare che i pazienti psicotici che prendono molti farmaci possono essere inibiti anche nel loro funzionamento sessuale (Kelly & Conley 2004), creando ulteriore imbarazzo a quanto già la situazione può portarne. Ecco allora che quei fugaci incontri possono essere serviti anche ad Antonino per svelare il fatto che non fosse poi quello il tipo di soddisfazione che cercava. L’incontro con il reale è sempre traumatico, in questo senso.

Questo episodio mi colpì molto, anche perché ovviamente non si tratta di un caso isolato, tutt’altro. Quello che però mi colpì fu il modo in cui venne trattata la questione, che a mio avviso non si esauriva tanto nella richiesta di soddisfare un “bisogno” sessuale, ma rimandava invece ad altro (tanto che, come detto, l’esperimento venne ripetuto un paio di volte, poi fu sospeso). Come potevano venire semplicemente ignorati la storia di Antonino, il suo delirio, il suo racconto, rispetto alla richiesta che lui avanzava? E come sarebbe stato possibile elaborare diversamente la questione, di modo che diventasse una chance sia per Antonino, sia per l’equipe, che invece apparentemente non ne coglieva né la profondità né la complessità?

 

Sesso/sessualità

Avere rapporti sessuali è dunque un bisogno? È qualcosa che sarebbe semplicemente inscritto in natura? Trovo che sia una tesi difficilmente difendibile. Di certo anima molti operatori e psichiatri, che ritengono di dover in qualche modo rispondere ad un “diritto” dei loro assistiti e si prodigano per trovare loro la soluzione. Magari consigliando loro di ricorrere alla masturbazione, o proponendosi addirittura per accompagnarli ad incontrare prostitute. La questione è agita, dunque evitata, e si vede bene quali fantasmi circolano intorno alla sessualità. Ma come diceva Jean Oury (1975), “non si può tentare di articolare la questione del sesso semplicemente non considerando il transfert, la castrazione, la domanda, l’inconscio…[...] L’ideologia della ‘liberazione sessuale’ rispetto alla psicosi può avere effetti pericolosi, laddove può portare una persona ad occupare il posto forcluso del Nome del Padre: in questo senso il caso Schreber è un paradigma che si ripete più e più volte”. Cioè la questione è clinica, letteralmente, e va colta nelle pieghe del discorso, perchè non si dà senza conseguenze. Non porta da nessuna parte affrontarla semplicemente in termini di giusto/sbagliato o bene/male. Le conseguenze non sono per altro sempre prevedibili. Nei casi più drammatici però, proprio l’incontro con il reale di un corpo, e l’impossibilità di assumere una diversa posizione simbolica possono addirittura causare degli scompensi psicotici, se non lo scatenamento vero e proprio di una psicosi (vedi ad esempio Richa, 2004).

Qualunque soluzione venga proposta, risulta comunque un’operazione ideologica, dal momento che non propone di interrogare il fantasma che sottende a questa posizione: proponendo ai “sofferenti” di cercare soddisfazione nell’attività autoerotica (o semplicemente erotica, dal momento che nell’erotismo l’Altro è comunque precluso), o nei rapporti a pagamento, si impedisce loro di interrogarsi rispetto alle possibili cause della propria condizione (cioè la propria posizione soggettiva, la parte che ciascuno ha in ciò che gli capita); d’altra parte offre all’istituzione l’idea di aver soddisfatto un bisogno fondamentale di un suo assistito, fantasmaticamente immaginato incapace di poter accedere da solo ad una diversa sessualità.

Se rimaniamo sul piano della risposta, è certo difficile immaginare altre soluzioni da quelle citate. Ma ciò non riveste molto interesse per noi, e per altro non si capisce perché una persona, ancorché psicotica, non potrebbe aver già pensato da sola a queste “illuminanti soluzioni”. Certo, possiamo pensare che col beneplacito dell’istituzione possa vivere con meno sensi di colpa queste esperienze. Dal 2004 operano in Svizzera alcuni massaggiatori e massaggiatrici per disabili, che propongono ai disabili fisici e mentali massaggi, carezze, e giochi erotici a una tariffa di 150 franchi l’ora. La prima società a fornire questo genere di servizi è stata la basilese «associazione “Handicap e sessualità - contro la violenza sessualizzata” (Fachstelle Behinderung und Sexualität - gegen sexualisierte Gewalt, FaBS), presieduta dalla psicologa e psicoterapeuta Aiha Zemp, anch’essa disabile fisica. L’esperiemnto è stato poi ripetuto con succeso dalla SEHP - association suisse sexualité et handicaps pluriels. In seguito l’offerta si è moltiplicata, ed ora operano altre associazioni che offrono uno spettro di servizi più ampio, ciò che chiamano “assistenza sessuale”, destinato ad una clientela più eterogenea[1].

Ma perchè pensare sempre che la questione risieda semplicemente nella cosiddetta educazione sessuale? Non c’è nessun sapere sul corpo, nessun sapere sul desiderio che si possa trasmettere, perchè è di questo che si tratta. Nulla può dirsi di ciò che avverrà in un incontro. Nulla può dirsi del proprio desiderio prima che l’incontro avvenga. Non può esserci alguna garanzia, neanche rispetto al godimento, non c’è un sapere che sarebbe trasmissibile.

Non è sintomatico prescrivere come “terapeutico” la scelta di un incontro impersonale con una prostituta, invece che tentare di instaurare dei dispositivi di parola? E perché mai cedere sul desiderio, ponendo alla base del legame sociale l’osceno? Anzi, più radicalmente: perché mai il discorso psichiatrico a volte sembra fondarsi su una legge oscena? Da una parte i manuali di psichiatria riconoscono patologica l’omosessualità (fino al DSM III), la masturbazione e gli atteggiamenti sessuali perversi, dall’altra, non di rado gli psichiatri “prescrivono” questi stessi comportamenti ai propri assistiti, invertendo dunque il normale registro e introducendo un codice non scritto, alternativo, superegoico, poiché nell’ordine del “Godi!”. Ma il discorso psicotico ci presenta già abbondantemente il proprio versante osceno, attraverso racconti a tinte forti e con un gergo spesso volgare, scurrile.

 

Come ascoltare in istituzione?

Allora come affrontare queste questioni quando si ha a che fare con degli psicotici, in una pratica istituzionale? Come ascoltare le parole di un soggetto cosiddetto psicotico, quando ci parla di tematiche sessuali o del suo desiderio di avere rapporti sessuali? Senza dimenticare la domanda fondamentale, da porsi ogni volta: chi parla?

Purtroppo in genere nelle istituzioni circola molta ideologia, per cui le discussioni che ne seguono ruotano intorno al fatto che ciò sia un bene o un male, se cioè un tale debba essere aiutato o ostacolato nella sua ricerca di partner, e se ciò debba avvenire entro o fuori lo spazio della struttura. In parte è comprensibile, ci sono esigenze contestuali, legate anche all’organizzazione e al funzionamento della struttura, ma non per questo possiamo accontentarci di risolvere la questione sul piano pratico. Vorrei fare una nota storica. Roger Gentis (1975) fa notare che non sono stati gli psicofarmaci a fare la vera rivoluzione negli ospedali psichiatrici, ma l’arrivo degli anticoncezionali, la pillola in particolare. Secondo Gentis esclusa la possibilità di ogni incidente, cosa di cui sarebbero stati responsabili gli infermieri, i medici, e quanti lavoravano negli ospedali psichiatrici, a nessuno importava davvero se i pazienti avevano rapporti sessuali fra loro. Questo pensiero ha suscitato chiaramente molto scalpore, e forse va letto soprattutto come una provocazione. Non si può non considerare il contesto storico, culturale e sociale dell’epoca, e neppure le condizioni, così diverse dall’oggi, in cui versava la salute mentale. Oggi non ci sono più i grandi ospedali psichiatrici che accoglievano centinaia di pazienti. Ci sono strutture di piccole dimensioni, che ospitano in media non più di quindici utenti, e che non hanno più carattere prettamente medico o infermieristico, sia perché medico e infermiere non sono più presenti in struttura a tempo pieno, sia perché le attività della struttura hanno generalmente un taglio più socio-educativo. Anche rispetto al personale in struttura c’è forse maggiore professionalità; agli operatori è ormai richiesto un titolo universitario specifico, mentre fino a pochi anni fa la formazione non era considerata un prerequisito indispensabile. Lavorando in strutture più piccole, gli ingressi degli utenti vengono ponderati con più attenzione, e non avvengono così indiscriminatamente come avveniva nei manicomi, dove poteva finire anche chi aveva problemi non squisitamente psichiatrici. Il contesto in cui ci muoviamo è dunque cambiato radicalmente. Quello che però non è venuto meno è il peso dell’istituzione nei confronti di operatori e utenti. L’istituzione, sia essa la comunità, la cooperativa che la gestisce, l’Ente pubblico o l’Azienda Sanitaria, costituisce un Altro molto forte, che incide profondamente sulla relazione tra utenti e operatori, non meno di quanto poteva avvenire ai tempi dei manicomi. Da una parte è importante che la struttura non sia autoreferenziale, cioè che si debba rendere conto ad un terzo, esterno, in modo che non si ripetano certe derive tristemente note degli ospedali psichiatrici; dall’altra, però, questo Altro è così invasivo e controllante (specie in un periodo di tagli alla spesa pubblica, e dunque di controllo serrato alle spese, ricerca della massima efficienza delle strutture, a scapito magari della qualità dei servizi), che le questioni pratiche e amministrative diventano spesso più importanti delle questioni cliniche. Queste ultime vengono dunque facilmente derubricate a epifenomeni da trattare a margine: situazioni da risolvere, e non più questioni da analizzare. Si capisce come anche l’ipotesi di una gravidanza in struttura possa spaventare gli operatori per le conseguenze che ciò potrebbe avere, non solo e non tanto per i singoli utenti, ma anche e soprattutto per la struttura nei confronti dell’ASL che garantisce l’appalto. La gestione delle responsabilità è sempre stata critica, anche ai tempi dei manicomi. Mentre però un’istituzione totale poteva superare questo problema chiudendo all’esterno e limitando al minimo le attività dei propri utenti e il loro raggio d’azione, la deistituzionalizzazione ha di fatto incrementato le possibilità di rapporti sessuali per i pazienti psichiatrici (Nicholson, Geller & Fisher, 1996). Le comunità psichiatriche oggi cercano tendenzialmente di proporre l’idea di una casa in cui non ci sono più pazienti, ma ospiti che vengono accolti per un certo periodo di tempo. La gestione degli spazi nelle comunità, all’atto pratico, risulta dunque necessariamente meno rigida. Nelle comunità viene meno quell’aspetto di controllo tipico dei vecchi manicomi e che, come fanno notare Pagano e De Pascalis (2010) ancora oggi si ritrova nei CSM (Centri di salute mentale) e negli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura). L’istituzione non è più così totale, così pervasiva nei confronti degli utenti. La stessa idea di comunità rimanda al territorio, non ad un gruppo chiuso. Anche i confini con l’esterno sono più fluidi, c’è maggiore apertura. Diversi utenti, anche quelli con diagnosi importanti, sono autorizzati ad uscire da soli, se dimostrano sufficiente autonomia e capacità di orientamento.

La comunità psichiatrica dovrebbe dunque funzionare come un posto in cui portare avanti un lavoro su di sé, e non semplicemente un luogo di soggiorno, di svago, di attesa. Per questa ragione, ancora più che nei manicomi, l’espressione della sessualità degli utenti viene normalmente proibita all’interno della struttura, e piuttosto indirizzata verso l’esterno. Ed è probabilmente giusto così: deve vigere un interdetto perché qualcos’Altro sia possibile. La legge non è contro il desiderio, anzi è ciò che lo istituisce e lo alimenta. Il limite che spesso si riscontra nelle istituzioni è che questo interdetto non è sempre sostenuto dalla contemporanea offerta di altro, cioè al legittimo “no” non sempre viene offerta l’alternativa, come può essere ad esempio la creazione di spazi e momenti in cui elaborare le questioni, o anche attività che potrebbero portare gli ospiti ad impegnarsi in attività al di fuori della comunità. Cioè, quello che emerge di questo interdetto, di questo “no” è poi solo il suo aspetto normativo, cioè diventa semplicemente una proibizione, una chiusura (del resto anche l’accompagnare di nascosto Antonino all’incontro con una prostituta non è che una deroga rispetto ad una proibizione, cioè una conferma della proibizione stessa).

La questione della sessualità rimane dunque la questione più spinosa, e come tale resta facilmente rimossa. La sessualità implica una lettura a più livelli: come ciascun utente vive la struttura, e come si vede rispetto al gruppo; le relazioni tra utenti, e le invidie, le gelosie che le questioni sessuali possono far nascere; il gruppo degli operatori, come ciascuno immagina la funzione della struttura e la sessualità degli utenti; i rapporti con l’esterno e con l’istituzione, e da chi è rappresentata l’istituzione, dal momento che potrebbe essere un elemento ancora estraneo al gruppo di lavoro. Dal momento che questo Altro è dunque molto spesso un ente giuridico come un’ASL le questioni che si impongono sono facilmente di natura pratica. La sessualità viene allora repressa, negata, o come nel caso di Antonino viene agita all’esterno: in definitiva due tipi di risposte per non doversene occupare.

Il caso di Antonino mi sembra però paradigmatico, mi sembra cioè una storia che si ripete non di rado in psichiatria, sia nelle modalità in cui si esprime la domanda (anzi, nella maggior parte dei casi la domanda non si esprime neanche in questo modo, viene semplicemente agita), sia soprattutto nelle risposte che vengono offerte dall’insieme di equipe, assistenti sociali, psichiatri. A questo punto occorre rovesciare le questioni, occorre tentare di abbordare questi temi in altro modo. Può la psicoanalisi aiutarci ad intendere diversamente quanto accade in queste situazioni? E dunque, come impostare una riflessione intorno alla sessualità e alla psicosi? Sesso e psicosi? Sessualità e psicosi? Oppure, sesso e psicotici? Ogni tentativo risulta del tutto insoddisfacente, anzi problematico.

 

 

II

 

La sessualità non è il sessuale

Già Freud poneva una differenza importante: la sessualità non è il sessuale. Anzi, possiamo forse dire che il sessuale, se inteso come qualcosa di assolutamente fisiologico, istintuale, primitivo, non esiste. La stessa distinzione psiche/soma, mente/cervello, per quanto conservi una sua utilità pratica non è del tutto soddisfacente e risulta in fondo fittizia, in quanto neanche un corpo può dirsi fuori dalla parola, come le stesse esperienze psicotiche testimoniano. Solo che nelle psicosi la parola ritorna più facilmente nel registro del reale, che non nel simbolico. Invece del taglio, la scissione.

Freud ha provato tutta la vita a dire cos’è la sessualità, ed è stato continuamente frainteso. Forse perché la sessualità di per sé è proprio ciò che deborda, è l’apertura, la differenza, e dunque la sorpresa. È l’effetto dell’attivazione dell’Altro. Si tratta allora di chiedersi cosa voglia dire attivare l’Altro, cioè come si possa, almeno per qualche momento, attivare l’inconscio. È una questione fondamentale, che riguarda ciascuno, qualsiasi sia il discorso in cui si trova.

Che in una struttura psicotica ci sia sessualità non è affatto scontato. Ad esempio Freud notava che nelle psicosi la libido è tutta riversa sull’Io. Per tornare alla differenza tra sessuale e sessualità possiamo riprendere quanto appuntava Freud (1905) nei Tre Saggi sulla Teoria Sessuale:

“l’esperienza insegna che in questi ultimi [malati di mente] non si osservano perturbazioni della pulsione sessuale diverse da quelle di individui sani, o di intere razze e ceti sociali”.

Infatti gli “atti sessuali” ci sono eccome (ed è proprio ciò che fa problema negli istituti, per una serie di questioni non squisitamente teoriche), ma ancora più che in altre strutture psichiche, si direbbe che non c’è “rapporto” sessuale, per la natura narcisistica delle psicosi.

 

 

Erotismo e sessualità

Come dice Freud, la pulsione è integra, ma allora qual è il suo destino? Dobbiamo a Freud l’aver reintrodotto nel linguaggio comune i termini erotismo e sessualità (Eros in greco indicava l’amore; e prima di Freud non si usava il termine sessualità, quanto sensualità). Purtroppo, oggi sono spesso usati come sinonimi, in senso vagamente spregiativo. La versione corrente del termine “eros” è stata impiegata da Freud nel 1920 in “Al di là del principio di piacere”, come sinonimo di pulsione di vita, in contrapposizione alle pulsioni di morte, Thanatos. Oggi invece l’erotismo viene inteso come tendenza eccessiva agli eccitamenti sessuali. La questione non è però da affrontare in senso gnostico, cioè se rappresenti un bene o un male, né ci interessa quantificare l’eccitamento sessuale. Ciò che è importante considerare, e lo si evince bene da questi due brani di Freud, è la compresenza delle due pulsioni (Eros e Thanatos, pulsioni di vita e di morte, amore e odio) nel normale funzionamento psichico.

“In base ad ampie considerazioni sui processi che danno luogo alla vita e che conducono alla morte,è probabile che si debba riconoscere l’esistenza di due tipi di pulsioni, corrispondenti ai processi opposti di costruzione e di distruzione nell’organismo. Il tipo di pulsioni che lavorerebbero fondamentalmente in modo silenzioso e che perseguirebbero lo scopo di condurre l’essere vivente alla morte hanno perciò meritato il nome di “pulsioni di morte”; esse sarebbero rivolte verso l’esterno grazie all’azione congiunta di numerosissimi organismi elementari unicellulari e si estrinsecherebbero sotto forma di tendenze distruttive o aggressive. Le altre sarebbero le pulsioni libidiche analiticamente a noi meglio note come pulsioni sessuali o di vita: potremmo compendiarle nel modo migliore sotto il nome di Eros; il loro intento sarebbe quello di plasmare la sostanza vitale in unità sempre maggiori, garantire con ciò la continuazione della vita e guidarla verso più alti sviluppi. Negli esseri viventi le pulsioni erotiche e quelle di morte avrebbero dato luogo a regolari impasti, miscele; ma sarebbe anche possibile un loro “disimpasto”. La vita consisterebbe nelle manifestazioni del conflitto o dell’interferenza tra questi due tipi di pulsioni, e con la morte essa recherebbe all’individuo la vittoria delle pulsioni di distruzione, ma anche, con la procreazione, la vittoria dell’Eros”. (Freud, 1922, p. 461)

Per la contrapposizione tra le due specie di pulsioni possiamo rifarci alla polarità di amore e odio. […] l’osservazione clinica ci mostra non solo che l’odio è invariabilmente l’inatteso accompagnatore dell’amore (ambivalenza), non solo che spesso esso precorre l’amore nelle relazioni fra gli uomini, ma anche che in alcune occasioni l’odio si trasforma in amore, e l’amore in odio. (Freud, 1922b, p.504)

Non è la lotta tra tendenze buone e anticonservative: l’odio è una funzione primaria, ed è la funzione che permette il taglio, cioè è la barra che divide significante e significato e permette lo scivolamento verso altri significanti.

“L’affermazione – come sostituto dell’unificazione – appartiene all’Eros, e la negazione – che è una conseguenza dell’espulsione – alla pulsione di distruzione. Il generale gusto di dire di no, il negativismo di alcuni psicotici va inteso verosimilmente come indizio di un disimpasto pulsionale avvenuto per detrazione delle componenti libidiche.” (Freud, 1925, p. 201)

Amore e odio non si danno in due momenti distinti, se non in quello che Freud chiama appunto “disimpasto pulsionale” e che è un fenomeno ricorrente nella psicosi, in cui appunto l’oggetto è dapprima erotizzato e poi investito violentemente delle pulsioni aggressive. Questo disimpasto sembra spiegare molto bene alcuni aspetti della psicosi.

 

 

La predisposizione bisessuale

Nel primo dei tre saggi sulla teoria sessuale, affrontando la questione dell’inversione, Freud precisa che la sessualità non può darsi come dato innato, né acquisito, e che piuttosto si tratta di “prendere inconsiderazione una predisposizione bisessuale”. Vale a dire che la sessualità non ha a che fare con la biologia, né con la cultura : è una questione pulsionale. E la pulsione non è predestinata, non conosce cioè un oggetto specifico, dunque anche l’etero o la omosessualità non sono riducibili alla differenza dei sessi. Il bambino è “perverso polimorfo”, cioè la sua sessualità può inscriversi in qualsiasi registro.

L’anatomia è il destino, per Freud, ma solo nella misura in cui questa costituisceunsupportoimmaginarioconsistenteperilgiocodi identificazioniincuièpresoilsoggetto. Non vi è nulla nell’inconscio che permetta di distinguere il maschile dal femminile, così come maschile e femminile non sono riducibili al sesso anatomico. Freud specifica chiaramente che non è possibile un semplice parallelismo tra il bambino e labambinapoiché le vicende dell’Edipo hanno dei passaggi in p nella bambina (rispetto all’oggetto sessuale), ma anchperché “l’uomha soltanto una zona sessuale direttiva, un organo sessuale, mentre la donnnpossiede due: la vagina, propriamente femminile, e la clitoride, analoga al membro maschile”. La primafase dello sviluppo femminile sarebbe dunquemaschile! (in quanto legato alla clitoride). Infatti:

“Con riguardo alle manifestazioni sessuali autoerotiche e masturbatorie, si potrebbe affermare che la sessualità delle bambine ha un carattere assolutamente maschile. Anzi, se si sapesse dare ai concetti "maschile femminile" un contenuto più determinato, si potrebbe anche sostenere la tesi che la libido è, come regola e come legge, di natura maschile, sia che si presenti nell’uomo o nella donna e a prescindere dal suo oggetto, sia questultimo uomo o donna” (S. Freud,1905,p.525).

Maschio e femmina rimangondue referenti biologici, non coincidenti comaschile e femminile, che comunque si mostrano costrutti poco chiari:

“tutti gli esseri umani, in conseguenza della loro disposizione bisessuale, nonché della trasmissione ereditaria incrociata, unisconin sé caratteri virili femminili, cosicché la virilità e la femminilità pure rimangono costruzioni teoriche dal contenuto indeterminato” (p.217 Diff. anatomica tra i sessi)

Nonsolo,mamaschileefemminile noncoincidononeanchecon attivoepassivo. Anzi,siailbambinochela bambina attraversanole stessetappe, entrambiesperiscono per primalaposizione passiva nella relazione. Illuminanteèquanto Freud scrivenel1931 in“SessualitàFemminile”:

“Le prime esperienze sessuali e le primvicende con tonalità sessualche i bambinimaschi e femmine, vivoncolmadre sono naturalmente dnatura passiva. Essi vengonda lei allattati, imboccati, puliti, vestiti e istruiti in ogni cosa. Una parte della loro libido rimane legata a questa esperienza e gode dei soddisfacimenti che ad essa sono connessi, un’altra parte tenta di convertirsi in qualcosa di attivo

E più avanti aggiunge:

“La predilezione per il gioco con la bambola che le femmine manifestano, al contrario dei maschi, vienin genere interpretato come indizio del primdestarsi della femminilità. Non a torto, solo non si deve trascurare che quello che qui emerge è l’aspetto attivo della femminilità

Della sessualità di un soggetto non ci informa dunque solo il tipo di scelta oggettuale, ma soprattutto la relazione che il soggetto intrattiene con l’oggetto, la “grammatica” delle pulsioni.La sessualità esprime in definitiva una modalità di relazione con l’Altro.

 

Come intendere i termini sessualità e psicosi?

Che cosa, dunque, chiamiamo sessualità, e cosa psicosi? Questa semplice domanda pone già delle questioni importanti. Sessualità e psicosi non sono due categorie già date, definite, come due momenti distinti del funzionamento psichico. Possiamo semplicemente pensare le psicosi come uno “stadio” evolutivo più primitivo in cui le pulsioni sarebbero meno organizzate? La tesi di un’iniziale attitudine perversa-polimorfa è stata ripresa da molti, anche al di fuori della psicoanalisi (Frost & Chapman, 1987; Hoch & Cattel, 1959; Meehl, 1964; Meloy, 2002). Frost e Chapman nel loro articolo intitolato “Polymorphous sexuality as an indicator of Psychosis Proneness” partono per certi versi dall’osservazione freudiana (senza peraltro citare Freud) per verificare se dalla sessualità di un individuo non sia possibile risalire al tipo di organizzazione psichica. Per sessualità perversa polimorfa gli autori intendono una sessualità “chaotic” (riprendendo la definizione di Meehl, 1964) “a scrambling of heterosexual, homosexual, autoerotic, voyeuristic-exhibitionistic, sado-masochistic, oral, anal, and genital components”, e in ogni caso una sessualità che non è semplicemente ipersessualità, come si può ritrovare nella mania. Per Frost e Chapman si tratta dunque di un tratto costante, e non di un fatto episodico. Ciò che gli autori arrivano ad esempio a trovare è che “subjects who scored deviantly high on the Perceptual Aberration-Magical ideation Scale were found to report significantly more polymorphous sexuality than did control subjects”. Secondo Frost e Chapman sarebbe dunque anche vero il contrario, e cioè dall’espressione della sessualità si potrebbero avere indicazioni circa l’organizzazione psichica, e addirittura predire dei fattori di rischio per la psicosi. In particolare: “A measure of polymorphous sexuality may facilitate the identification of those perceptual aberration-magical ideation subjects who are at greater risk for psychosis and those who are at risk specifically for schizophrenia”. Ma come tenterò di dire più avanti, forse la questione è più complessa. Non ci si può limitare all’osservazione dei comportamenti, dal momento, tra l’altro, che in diverse strutture potrebbero avere significazione diversa. Possiamo invece ipotizzare delle differenze “strutturali” nelle psicosi, immaginando ad esempio, come scrive Miletto, che “lo psicotico è qualcuno che non è uscito dalla posizione iniziale, per certi versi normale, di oggetto per la madre. Si può indicare la psicosi con la formula del fantasma S = a. Soggetto e oggetto sono uguali, senza neanche il punzone in mezzo”. Lo psicotico si è quindi fatto oggetto di godimento della madre, cioè soggetto della mancanza. Vale a dire che nel discorso psicotico non si è inscritto quello che Lacan chiama Nome del Padre, e dunque il significante fallico non opera come il significante della differenza. Vale a dire che “per lo psicotico non è importante averlo [il fallo], importante è esserlo” (Gambini, 2006). Lo psicotico non ne vuole sapere del fallo, è lui che si fa oggetto di godimento assoluto per un Altro che verrebbe così completato (ed è qualcosa che si nota bene avendo a che fare con gli psicotici, perché non possono proprio sopportare che qualcun altro occupi questa posizione).

Per altro, anche ciò che chiamiamo sessualità non è sempre garantito, e in nessuna struttura. L’etimologia della parola “sesso”, che viene da sexus, dal latino secare, tagliare, indica la divisione di una specie in due parti, maschio e femmina. Parimenti indica la procreazione, cioè l’uno che si fa due. La sessualità è dunque indice della differenza, differenza introdotta dal significante, che si distingue dagli altri significanti, ma che non significa di per sé. Anche il pene, ci dice Freud, non è che quell’elemento che segna la differenza tra il bambino e la bambina, ma di per sé non è in grado di dire alcunché di cosa significhi essere uomo o essere donna. Non è la differenza anatomica a definire la sessualità, quanto piuttosto il racconto in cui quella differenza anatomica viene presa. Dunque, c’è sessualità nella parola quando un elemento fa la differenza, ed è in grado di istituire un racconto. Il racconto è sempre nuovo, non è già scritto, è nell’atto. Possiamo dire che per accedere al racconto (ad esempio per rompere il silenzio nel quale si rifugia volentieri l’ossessivo) occorra accettare la castrazione, cioè non immaginare che le cose siano già scritte, ma che dipendano dalla parola e dal racconto. Nessuno è garantito, bisogna correre il rischio di parola. È la parola che è in grado di operare questo taglio, e la sessualità si dà come effetto di parola. E dunque, se la sessualità è un effetto di linguaggio, non c’è una sessualità “diversa” nelle psicosi, quanto piuttosto una sua differente declinazione, quando non un vero e proprio evitamento.

Con Freud la sessualità si dà accettando la castrazione. È paradossale perché la castrazione farebbe pensare ad una perdita, e invece indica il fatto che è proprio quella perdita di metà del mondo che permette che qualcosa possa avvenire. Ovviamente si può cercare di non tenere conto della castrazione, per via di rimozione, diniego o, dice Freud, Verwerfung (rigetto, preclusione, o come traduce Lacan con un termine giuridico forclusione), che rimandano rispettivamente a nevrosi, perversione e psicosi. La castrazione è infatti una perdita immaginaria, ma di fatto è ciò che da accesso al simbolico, ciò che fa parlare il soggetto. Lacan prova a rielaborare la questione attraverso quelle che chiama le tavole della sessuazione. Egli chiama gli umani parlesseri, per sottolineare il fatto che si è prima di tutto presi nel linguaggio, e dice che l’unico modo per accedere alla sessualità, e dunque inscriversi dalla parte maschile o femminile, è riconoscere la funzione fallica, dunque la castrazione. Ciò significa che non è possibile tenere una posizione soggettiva neutra. L’inscriversi in uno dei due registri delle tavole della sessuazione è però una perdita solo immaginaria per il parlessere (perdita di totipotenzialità, di indistinzione originaria), dal momento che è solo accettando la castrazione che si può accedere alla sessualità. La sessualità si dà infatti solo per differenza, ad esempio quando ci si riesce ad affrancare dal discorso, cosa molto difficile per lo psicotico, che al discorso sembra aderire completamente.

Nella nevrosi, mediante rimozione, la castrazione si struttura in fantasma. E proprio il fantasma di castrazione è fonte di angoscia per il nevrotico, ma prima di tutto è riparo da una minaccia più grande, che sarebbe l’abbandonarsi a un godimento senza fine che lo condurrebbe alla follia e all’annullamento. Questa funzione di argine manca nel discorso psicotico, e infatti lo psicotico ha problemi con i limiti: limiti del corpo, limiti del tempo, limiti simbolici. Il discorso psicotico può non avere limiti, può essere straripante. Le parole hanno lo stesso statuto delle cose, non c’è rimozione ma repressione e dunque non c’è ritorno nel simbolico, sotto forma di lapsus, atto mancato, ma ritorna nel reale, come passaggio all’atto, atto riuscito. Non ci sono barriere, non c’è la barra tra significante e significato, non c’è separazione tra interno ed esterno, non c’è nulla che arresti la nominazione. Il nome è un significante come altri. Le psicosi sono piuttosto un far finta di nulla circa la castrazione, o per dirla con Lacan, la non accettazione della sessuazione (le tavole della sessuazione valgono infatti solo per le nevrosi). In questo modo, non avvenendo un processo simbolico, qualcosa resta per sempre precluso, forcluso (Lacan identificherà con la metafora del Nome del Padre questo significante fondamentale, notando che a partire da Schreber molte psicosi si scatenano nel momento in cui il soggetto è chiamato a ricoprire il ruolo simbolico di padre). Con Freud possiamo dire che ciò che non può rappresentarsi all’interno si presenterà all’esterno. Ovvero ciò che rimarrà precluso a livello simbolico potrà presentarsi d’ora in avanti solo nel reale, e dunque non come metafora, neanche come rappresentazione, ma come oggetto vero e proprio, che però non verrà riconosciuto come proprio dall’Io.

E come supplisce la psicosi a questo mancato accesso al simbolico? Con una “compensazione immaginaria” che serve a stabilizzare la posizione del soggetto cui all’improvviso (forse perché confrontato con le ragioni della sua Verwerfung) è venuto a mancare un appoggio, come uno sgabello che è rimasto con due gambe (usa proprio questo paragone Lacan nel suo seminario sulle psicosi del 1955-56). L’effetto di questa protesi immaginaria è quello di garantire al soggetto un’identità che possa supplire all’ “Edipo assente” (ovvero all’assenza della metafora paterna, del Nome del padre). Questa stampella comunque non garantisce affatto il terzo, cioè l’Altro. Il soggetto resta prigioniero della relazione speculare, cioè si identifica al simile, che viene ad occupare per lui la posizione di “Io ideale”. Si tratta tutto sommato di una stampella debole, destinata a cedere qualora un elemento esterno dovesse turbare questa identificazione, così che il soggetto potrebbe andare incontro a nuovi scompensi:

Qui (nella relazione immaginaria) l’alienazione è radicale, non è legata a un significato nullificante, come in un certo modo di relazione di rivalità con il padre, ma a una nullificazione del significante. Di questo autentico spossessamento primitivo del significante, bisognerà che il soggetto porti il peso e ne assuma la compensazione, lungamente, nella sua vita, attraverso una serie di identificazioni puramente conformiste a personaggi che gli daranno il senso di quello che bisogna fare per essere un uomo. Così la situazione può sostenersi a lungo, che degli psicotici vivono compensati, hanno in apparenza i comportamenti ordinari considerati come normalmente virili, e all’improvviso, misteriosamente, sa Dio perché, si scompensano. (Lacan, 1955-56, p.242)

L’identificazione conferisce al soggetto quella che Helene Deutsch descrive personalità come se, nella quale l’identificazione all’oggetto ricopre un vuoto d’essere fondamentale. Essere come gli altri, mostrare un adattamento sociale adeguato, presentarsi come identificati a dei ruoli determinati in modo che qualsiasi oggetto potrà funzionare come trampolino per un’identificazione, sono delle modalità tipiche delle personalità “come se” per occultare il vuoto interiore. E ancora, prosegue Lacan:

Cos’è che rende improvvisamente insufficienti le stampelle immaginarie che permettevano al soggetto di compensare l’assenza del significante? In che modo il significante ripropone come tale le sue esigenze? In che modo ciò che mancato interviene e interroga? (Lacan, 1955-56, p.242)

L’identificazione è tale che lo psicotico finisce per alienarsi nell’altro in cui si identifica. Avendo a che fare con degli psicotici, si coglie bene questo aspetto di “finzione”, questo essere presi in una parte, questa identificazione a un ruolo ideale. È il meccanismo compensatorio col quale lo psicotico costruisce il proprio Io. Nelle psicosi l’Io è un Io narcisistico, e l’oggetto non approda alla sublimazione, dunque è erotizzato. Lo stesso mito di Narciso ci presenta un personaggio sterile. Infatti il narcisista non si affida alla parola, è attratto dalle immagini. Il narcisismo non è certo da disprezzare, ma ciò che si ritrova nelle psicosi è una fissazione in questa posizione.

“Quale nozione possiamo farci del narcisismo a partire dal nostro lavoro? Noi consideriamo la relazione del narcisismo come la relazione immaginaria centrale per il rapporto interumano. Che cosa ha cristallizzato attorno a questa nozione l’esperienza dell’analista? Anzitutto la sua ambiguità. Infatti è una relazione erotica – ogni identificazione erotica, ogni presa dell’altro ad opera dell’immagine in un rapporto di cattura erotica, si produce per via di relazione narcisistica – ed è anche la base della tensione aggressiva”. (Lacan, p. 1955-56, 109)

 

III

 

C’è sessualità nelle psicosi?

Certo non è infrequente che dei soggetti psicotici abbiano dei partner. Ma come avvengono questi incontri? Possiamo parlare di desiderio, innamoramento o amore nelle psicosi? Alla fine la domanda che nessuno pone mai, perchè data per scontata, è proprio: c’è sessualità nelle psicosi?

Le parole dello psicotico possono dare l’idea di una parodia del discorso comune, come se mirassero più ad impressionare l’altro che non ad esprimere un proprio sentire. La psicosi ha anche questo aspetto di “parata”, questo adattarsi al discorso sociale, facendo proprie le rappresentazioni che giungono dall’esterno. Penso soprattutto ad alcune utenti che abitano la comunità: sempre vestite e truccate come se dovessero uscire, sempre in giro con la borsetta, sempre con qualche anello o qualche bracciale. Magari il rossetto è di un colore troppo intenso, magari il trucco non è riuscito benissimo, oppure la bigiotteria del mercato non è di gran classe: il risultato può essere kitsch, ma è anche attorno a queste rappresentazioni che nel discorso psicotico, nella sua economia psichica, qualcosa tiene. Ovviamente anche perchè c’è qualcuno che guarda, cioè gli altri utenti, e gli operatori. Capita a volte che alcuni utenti dicano di essersi fidanzati, e che poi vadano avanti e indietro per i corridoi della comunità mano nella mano, come dei giovani innamorati. Anzi, come ci si rappresenta due giovani innamorati. Non c’è in tutto questo della finzione, l’adesione ad una certa immagine stereotipica? Un altro utente di comunità, Marco, un utente di 45 anni anch’egli con diagnosi di schizofrenia, è solito importunare le altre ospiti con avances sessuali o domande personali sempre attinenti alla sfera sessuale. Il suo modo di fare spavaldo e diretto mette sempre in imbarazzo chi gli si para innanzi; Marco sembra saper parlare solo di sesso, e anche nei suoi atteggiamenti sembra voler rappresentare un certo erotismo, una certa sensualità. Eppure Marco non ha mai avuto rapporti sessuali, nè ha mai avuto un/a partner (anzi, a detta degli stessi operatori ne sarebbe terrorizzato), sicchè il tutto ha il sapore di una recita, una parte. C’è molta teatralità. E allora, quando ascoltiamo il discorso di un soggetto psicotico dobbiamo più che mai ascoltarlo con attenzione fluttuante, perché quello che vuole farci comprendere è proprio per portarci altrove. Non si tratta tamto di comprendere, quanto di intendere dove mira il discorso. Allora, quando in equipe si discute se sia giusto o meno accontentare i desideri e le fantasie di un ospite, quando si discute se sia giusto o meno accompagnarlo da una prostituta, o quando si dice che la sessualità è un diritto per tutti, forse lì non si colgono le questioni essenziali, che sono a monte. Si dà spesso per scontato che ciò che il discorso psicotico presenta come un proprio desiderio sia davvero così, mentre non è necessariamente vero. Spesso si tratta già di una interpretazione del desiderio dell’altro, dell’equipe, del medico o dell’istituzione. E nell’intercettare il desiderio dell’altro i soggetti psicotici possono avere una sensibilità straordinaria.

 

Desiderio ed erotismo

Il desiderio non sa cosa vuole, poiché non appartiene all’Io, anzi dispone dell’Io. Non solo: il desiderio non sa cosa desidera. È piuttosto in ciò che chiamiamo amore che si verifica un appuntarsi del desiderio su un oggetto, che viene idealizzato e “riconosciuto” come oggetto del desiderio. Ma si tratta di un paradosso, poiché nessun oggetto è già lì, in attesa di essere riconosciuto. È la parola, originaria, che crea la realtà, e con essa gli oggetti. Prima non c’è nessuna metà della meta in attesa di essere incontrata. L’amore è dunque già una rappresentazione, dove un oggetto pro-voca e costituisce un soggetto; in primo piano c’è lo sguardo, non la voce. C’è beanza nel rispecchiamento nell’altro, muta fascinazione. E uno sguardo che cattura, dove il soggetto è letteralmente rapito, guardato dall’oggetto. Direi che nelle psicosi irrompe subito il versante erotico dell’amore. Il desiderio è ciò che rompe la logica, ciò che nel discorso fa problema, ancora di più nel discorso psicotico, e dunque deve trovare una rappresentazione. Che cosa difende da ciò che è sempre instabile, mutevole? L’erotismo, che si fonda sulla reciprocità, sulla cattura immaginaria dell’oggetto. Non c’è dunque l’enigma del desiderio, non c’è mistero. L’erotismo si fonda sulla certezza!

Nelle psicosi è proprio difficile rintracciare il sembiante, cioè quell’elemento che susciti particolare interesse, desiderio, che spinga a parlare. Non c’è sembiante perché gli psicotici mal sopportano lo stato di incertezza, il dubbio, la dilazione, dunque ogni oggetto che si presenta sulla scena deve essere già sempre collocato in una trama ferrea. Non c’è spazio per quell’elemento dirompente, che stravolge le certezze, che fa volare sulle ali del racconto, che manda all’aria i piani. È molto difficile che ciò accada, e facilmente si difende da un’infatuazione rovesciando l’oggetto nel suo contrario, trasformando l’amato nel persecutore. Quando diciamo che “in amore vince chi fugge”, è perché non pensiamo alle psicosi. Nelle psicosi l’oggetto non sfugge, anzi niente sfugge alla significazione. La questione del sapere è centrale: lo psicotico sa. Sa chi è l’altro, sa cosa vuole da lui. Sa che l’altro lo ama, oppure lo odia. Sa cosa pensa di lui, e sa quando “verrà il tempo” per ogni cosa. Non c’è mancanza che inauguri un racconto. Non c’è domanda, al massimo una serie continua di richieste. E soprattutto, non essendoci domanda, non c’è ascolto! È questa la difficoltà con gli psicotici: lo psicotico proprio non ne vuole sapere…perché lui sa già! Ecco perché non c’è relazione sessuale: perché innanzitutto non c’è relazione.

 

 

La (omo)sessualità nelle psicosi

Forse non è un caso che nelle psicosi si riscontri di frequente una certa mobilità nella scelta della meta sessuale, cioè uno scivolamento da una scelta eterosessuale ad una omosessuale. Lo stesso Schreber presenta la sua storia a partire dalla fantasia di “come sarebbe bello essere una donna che subisce l’accoppiamento”. Ma come leggere la questione della (omo)sessualità nelle psicosi? Come leggere queste fantasie, alla luce di quanto detto rispetto all’identificazione e al narcisismo? Potrebbe addirittura trattarsi di una diversa omosessualità?

Sappiamo bene l’importanza e la centralità che Freud ha accordato alla sessualità nell’interpretazione di questo caso. La sessualità come punto di partenza, e dunque le fantasie omosessuali (inaccettabili per Schreber) come causa scatenante della psicosi. Del resto molti clinici anche di diversi orientamenti riportano casi di pazienti psicotici che d’un tratto “temono” d’essere diventati omosessuali (Lester, 1975; Škodlar& Zunter Nagy, 2009; Carnaroli & Giustino, 2011). Freud considera il delirio persecutorio come effetto rovesciato delle fantasie omosessuali (Chalus, 1977; Frosch, 1981). Possiamo dire che Freud insiste molto nel suo intervento sul carattere omosessuale dell’amore paranoico, mentre Lacan fa un’operazione per certi versi opposta e si interessa invece assai di più al suo carattere omosessuale. Per Lacan la causa scatenante la psicosi è piuttosto da ritrovarsi nella forclusione di quello che chiama il Nome del Padre, e dunque nell’impossibilità da parte di Schreber di andare a occupare la posizione simbolica del padre, una volta promosso nell’alta corte. A questa impossibilità Schreber sopperisce con il delirio, atto a dare senso a ciò che per lui non può essere simbolizzato. La questione di fondo che ruota intorno a questa riflessione può essere così formulata: l’omosessualità è causa o conseguenza della paranoia?

Secondo Anquetil (1998) “l’omosessualità di Schreber non ha nulla a che vedere con una perversione, ma si inscrive nel processo stesso della psicosi. In effetti il persecutore è solo la semplice immagine di un altro con cui l’unica relazione possibile è l’aggressività o l’erotismo, senza mediazione simbolica”. Ciò non testimonierebbe tanto un interesse per lo stesso sesso, quanto la dimensione narcisistica dell'amore nel quadro di una regressione topica. Il paranoico secondo Lacan “ama” un suo simile: l’oggetto prescelto è quello simile il più possibile al soggetto. Modo diverso di dire che questo oggetto non è altro che il soggetto stesso: lungi dal desiderare un oggetto d’amore erotico, come sembrerebbe dire Freud, il paranoico ama se stesso (e odia se stesso) nel doppio che gli rassomiglia. Riconosce e ama nell’altro ciò che vorrebbe essere. La figura ideale del paranoico è assai più una figura sociale che erotica; è una figura omosociale, piuttosto che omosessuale. Di qui il carattere “iper-sociale” di quel delirio comunque a-sociale che rappresenta a prima vista la paranoia. E di qui il carattere paradossalmente “iper-morale” del delitto paranoico. Secondo Czermak (1999) “l’amore dello psicotico non è una significazione generata attraverso una metafora, non è una sostituzione nel luogo di una mancanza. Quando uno psicotico ama, ama realmente a partire da una privazione che è forclusione. Quando odia egli può liberamente liberarsi dell’Altro che lo abita realmente, attraverso l’omicidio, se occorre. Il suo transfert non è un inganno, meno ancora un errore, neanche una resistenza”.

 

Fare l’uomo, fare la donna

La differenza dei sessi non garantisce la differenza sessuale, e dunque gran parte delle coppie potrebbero dirsi omosessuali. È l’idea stessa del “fare coppia” come “fare uno” che va nel verso di negare la differenza irriducibile della sessualità in atto. E l’incontro col simile, con lo stesso, è l’idea del “colpo di fulmine” come riconoscimento della propria “anima gemella”. Sono questioni trasversali a diverse strutture di discorso, non peculiari delle nevrosi o delle psicosi. Ciò che rende più problematica la posizione dello psicotico è la tendenza, più marcata che in altri discorsi, a negare l’alterità, a vedere se stesso nell’altro e ad attribuirgli propri sentimenti. C’è rispecchiamento nella psicosi, c’è indistinzione tra soggetto e oggetto, che è sempre disponibile. Come diceva Lacan, il nevrotico gira sempre intorno all’oggetto causa di desiderio, l’oggetto a, senza mai riconoscerlo, lo psicotico ce l’ha sempre in tasca!

La questione del fallo sembrerebbe non riguardare le psicosi, eppure, anche nelle psicosi è possibile ritrovare una distinzione tra uomini e donne (McGlashan & Bardenstein, 1990; Almingefeldt, 2011). In genere i soggetti psicotici maschi sembrano essere meno interessati alla questione sessuale rispetto alle donne, e facilmente tendono a isolarsi (Bhui, Puffet & Herriot, 1995). Al contrario le donne si mostrano più intraprendenti e più abili nel prendere l’iniziativa e cominciare delle relazioni, anche se queste si rivelano poi deludenti, o se addirittura loro stesse possono essere indotte a comportamenti sessuali a rischio, non protetti, o diventare vittima di sfruttamento (Almingefeldt, 2011; Miller & Finnerty, 1996). Secondo Melman (2009) “tutto questo discorso vuol dire che bisognerebbe studiare i problemi della psicosi in una donna come originali rispetto alla psicosi in un uomo. Non si sovrappongono perfettamente e vedete che qui c’è tutto un campo di studi che si apre. La psicosi femminile non è affatto la stessa cosa della psicosi nel maschio, non fosse altro che per il fatto che ogni donna può venire a sostenere la soluzione schreberiana, vale a dire farsi organizzatrice del senso sessuale e senza aver bisogno di sacrificare alcunché”. E forse proprio la mancanza di un referente fallico fa sì che sia ancora maggiore l’identificazione a dei ruoli (immaginati) maschili o femminili. Sarebbe questa la stampella che permetterebbe di fare da supplenza a quanto non può inscriversi simbolicamente, anche se come ogni stampella l’effetto è posticcio, è una parodia della sessualità.

Marco ha ventitré anni, ed è ospite di un’altra comunità psichiatrica. Ha una discreta capacità argomentativa, è piuttosto abile nel contrattare, anche perché negli anni ha acquisito diverse abilità e conoscenze dei meccanismi che regolano i luoghi in cui soggiorna. Eppure non è uno che “si presenta bene, anzi. È poco curato, ha sempre i pantaloni strappati, la maglietta sporca, i capelli tagliati male, è decisamente carente anche nell’igiene personale. È quello che si dice uno “squatter”. Come dicevo, è molto abile nell’usare la parola per ottenere qualcosa, ma niente affatto un buon oratore, parla poco con tutti, con gli operatori, con gli altri utenti e con i suoi amici, con i quali forse condivide più sostanze che parola. Per avvicinarsi alle persone usa spesso il contatto fisico: abbracci, pizzicotti, solletico, carezze, sono modalità che usa ampiamente per “stuzzicare” gli altri, come dice egli stesso. Parimenti fa sempre mostra della sua presunta “mascolinità”, del suo machismo e i racconti delle proprie esperienze sessuali con riferimenti sessuali espliciti sono sempre volti a dare conferma di questo suo essereuomo. Eppure lo osservo mentre avvicina da dietro un altro utente, lo abbraccia e mima un atteggiamento sessuale come se lo stesse possedendo. Con tono ironico gli faccio notare che tutti questi atteggiamenti stridono un po’ con il suo machismo. Tranquillamente, mi risponde: “Cosa cambia, l’importante è che sono attivo”. Come dire: sono uomo per il fatto di averlo, e per il fatto di essere attivo, tutto il resto non conta. Di fronte al fatto che il corpo nella psicosi non si integra sessualmente, di fronte al fatto che non vi è altro modo di pervenire a una identità sessuale, né di sostenere simbolicamente posizioni maschili e femminili, occorre affidarsi a un codice (immaginario, ad esempio delle norme comportamentali) che dica chi é e come si comporta un uomo.

 

IV

 

Conclusioni

Queste considerazioni sono per tentare di riprendere le questioni secondo quanto indicato da Freud, e per cercare di superare il luogo comune che troppo spesso circola nelle istituzioni. Non è con il buon senso, e nemmeno con le buone intenzioni che ci si avvicina alla clinica. Al contrario, senza ascolto distratto, ma anche senza teoria si rischia di non cogliere l’essenziale di un discorso come quello psicotico, e magari si rischia di produrre l’effetto opposto di quello auspicato. Ecco perché è importante riformulare le questioni, che riscrivendosi si chiariscono. Così ad esempio, anche nel caso di Antonino, siamo proprio sicuri che l’alternativa fosse semplicemente tra l’accompagnarlo all’incontro sessuale, o no? Alla luce di quanto detto fino a ora, mi sembra di poter dire che forse si tratta non tanto di soddisfare, o no, un presunto bisogno dell’altro, quanto invece in maniera più radicale fare in modo che si trovi un dispositivo perché ci siano degli effetti di sessualità, cioè degli effetti di parola, di racconto, proprio quanto non è avvenuto con Antonino. Come mai nessuno si è chiesto come una richiesta del genere poteva inscriversi nella sua storia, e a cosa avrebbe potuto portare? Anche l’istituzione, anche la comunità deve poter diventare dei dispositivi dove poter operare uno spostamento, dove produrre degli effetti che possiamo definire analitici, e non qualcosa già preso nella ripetizione, nella logica del soddisfacimento dei bisogni, o nel moralismo degli operatori. Accompagnare o non accompagnare Antonino era probabilmente un falso problema, perché è già sul piano della risposta, e dunque nell’immaginario. E, infatti, ha scaldato tanto gli animi degli operatori (che hanno letto l’evento attraverso il loro fantasma), ma di fatto, e puntualmente, si è rivelata un’esperienza deludente per Antonino.

Ciò che conta, e ciò che una comunità dovrebbe permettere, è che ci sia della teorizzazione, della ricerca, tanto per l’equipe quanto per gli ospiti. Non è per altro possibile articolare delle questioni senza considerare la storia della persona che si ha di fronte: ogni caso si scrive in maniera differente, ed è in questo effetto di scrittura che possono darsi degli effetti di sessualità. E dunque, al di là di cosa si decide di fare, è importante che l’evento sia preso in un racconto e non venga agito di nascosto, tra chi si rende complice e chi fa finta di non vedere o non sapere. Non conta tanto “cosa”, quanto “come”, si tratta di operare nella contingenza. Al contrario, se non si passa ogni volta nel campo della parola, l’evento non potrà che restare forcluso, e dunque ancora traumatico.

 

 

 

 

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